Dopo la conclusione della nona edizione della Fiera della Piccola e Media Editoria, Antonio Perri, docente del Corso di Laurea in “Informazione e Sistemi Editoriali” presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Tor Vergata,  fa il punto sul settore editoriale e sui possibili e futuri scenari del libro.

  • La fiera della piccola e media editoria: un “mercato” per una “vecchia merce”, quale il libro cartaceo, o un’opportunità di rilancio per il settore editoriale da cui ripartire?

Entrambe le cose, credo, perché spesso si tende a dare per scontata una visione dicotomica dell’economia che investe anche i beni cosiddetti “culturali” – una visione stando alla quale, inevitabilmente, il new soppianta e annulla l’old. Niente di più sbagliato: il tradizionale “mercato” per un “vecchio prodotto” qual è il libro a stampa gutenberghiano mi sembra l’inevitabile presupposto su cui costruire il futuro elettronico del libro e della sua circolazione-distribuzione. Detto in poche parole, e senza mezzi termini: davvero se scomparissero le fiere (anche quelle piccole e piccolissime) ma anche le care vecchie bancarelle piene di libri usati, remainders, ‘occasioni’ e ‘fuori catalogo’ questo fatto in sé produrrebbe un’improvvisa impennata dei contatti su Ibs, delle vendite di ebooks e dispositivi per la lettura, della circolazione in rete di testi in formato elettronico? O non ne risulterebbe ulteriormente annullato e depresso un settore che, con la scarsa attenzione di cui continua a godere da parte del mondo politico ed istituzionale (sono volutamente eufemistico), fatica come non mai a conquistare visibilità e a “contagiare” potenziali lettori?

  • Facebook, Social Network e Social Media: in questo contesto multimediale e globalizzato il libro sarà sempre più solo un prodotto di nicchia per pochi eletti o uno “spazio pubblico e democratico” da ricostruire?

I social network hanno dimostrato di essere potentissimi strumenti per la condivisione “dal basso” di contenuti e informazione, oltre che luoghi di partecipazione e azione politica. Al tempo stesso, però, si sono rivelati estremamente vulnerabili alla comunicazione “tradizionale” (quella ufficiale, cioè, mainstream, “dall’alto” e one-to-many) che ha da subito saputo colonizzarli invadendone gli spazi e “rimediando” i propri messaggi in forme equivoche che hanno apparentemente l’appeal habermasiano di uno spazio partecipativo aperto ma sono, in realtà, mera riproposizione delle logiche persuasive tardomoderne con cui costruire un consenso spesso acritico. Questo è accaduto alla comunicazione politica, ad esempio, quando troppi furbi hanno capito che l’ancor genuino “modello Obama” poteva – riveduto e corretto in senso populista, ovviamente – sostituire egregiamente sotto forma di “politica in rete” il tradizionale rapporto politico manipolatorio e clientelare ormai in crisi.
Sinora, fortunatamente, non mi sembra che uno scenario simile si stia concretizzando nel caso del prodotto-libro: la reticolarità dei social network ha conservato ancora la freschezza del “passaparola”. Tuttavia non abbasserei la guardia, e cercherei di difendere lo “spazio” della rete 2.0 da intrusioni commerciali, propagandistiche o “sensazionaliste” che finirebbero per snaturare completamente le logiche democratiche e di condivisione cui il nuovo spazio pubblico non dovrebbe mai abdicare – magari nascondendosi dietro al comodo pretesto di favorire la diffusione di un prodotto spacciato per “culturale” quando si tratta semmai, nel caso dei troppi instant book di consumo che invadono il nostro mercato (sotto Natale, poi!), di vere e proprie merci prodotto di un’“editoria senza editori” (leggi: di cultura) e senza più idee.

  • Come considera esperienze “nuove” quali l’University Press dell’Università di Roma Tor Vergata con Laterza? Direbbe che si tratta di una vera opportunità di visibilità per i prodotti della ricerca universitaria?

Non conosco, se non a grandi linee, i termini dell’accordo commerciale che lega la casa editrice Laterza a Tor Vergata. Vedo però in queste operazioni, sia pur condotte con le migliori buone intenzioni da parte delle istituzioni accademiche, un grave rischio: quello di condizionare e comprimere – al prezzo di una sudditanza tecnologico-economica onerosa e ingiustificata – la circolazione del sapere e dei prodotti di ricerca consegnandola a un mercato, come quello editoriale, in cui la logica di profitto ha troppo spesso il sopravvento sulla volontà di portare avanti un progetto culturale autonomo, svincolato in parte dalle ricadute economiche immediate (come dovrebbe essere ogni programma di ricerca degno di questo nome). Anche in questo caso mi spiego più chiaramente, senza troppi giri di parole. Dovendosi far carico delle spese di stampa, distribuzione e (limitatamente, credo) promozione concordate con l’impresa editoriale partner – a quanto mi dicono, stante l’articolata filiera e il numero di attori coinvolti nel caso di un editore come Laterza, spese piuttosto ingenti – crede che le valutazioni generali dell’Ateneo circa l’opportunità di pubblicare una ricerca ubbidiranno a una logica svincolata dalle prospettive di “rientro” economico a breve o medio termine? Gli studi su una nuova molecola potenzialmente commercializzabile e brevettabile sul mercato dei principi attivi medicinali – quand’anche le sue proprietà e, dunque, la redditività presunta del prodotto non fosse certa – avrebbero o no la precedenza su un rivoluzionario saggio critico-letterario che magari ha il merito di inaugurare una rilettura del tutto originale e inedita delle opere di un particolare autore o periodo? La risposta, mi pare, non è in discussione…
Ecco, per questa ragione credo che gli atenei (contrariamente a quanto sta di fatto avvenendo anche a causa dei tagli lineari imposti dalla politica dell’istruzione, a dire il vero) dovrebbero rinunciare ad “appaltare” di fatto ad altri la pubblicazione delle proprie produzioni scientifiche con la formula spesso ambigua dell’University Press – che nel contesto accademico americano rappresenta sì una costante, ma è un’impresa legata gestionalmente e spesso anche economicamente al bilancio dell’ateneo – creando invece le condizioni per promuovere in proprio, magari con soluzioni che riducano i costi (testi in formato elettronico; stampa digitale con tiratura in POD ecc.), la pubblicazione e diffusione di tutta la loro attività scientifica. Anche l’alternativa tradizionale delle pubblicazioni cartacee “finanziate” (da fondi ministeriali, di dipartimento o simili), ancora una volta realizzate da editori “esterni” e a totale beneficio di quelle imprese non è più, a mio avviso, percorribile perché superata dalla tecnologia e dallo stesso mercato – la cui vorticosa velocità di rotazione delle proposte editoriali non può più accogliere né “assorbire” prodotti destinati troppo spesso a finire in un magazzino o, peggio, al macero. Naturalmente sono consapevole che sostenendo la necessità di una gestione in proprio, da parte delle singole Università, delle loro UP sto di fatto proponendo – nell’ambito di un regime prevalentemente pubblico qual è ancora (non so per quanto, in verità) quello dell’università italiana – la creazione di marchi editoriali pubblici che riducano i costi produttivi e garantiscano, anche grazie ai nuovi canali distributivi, il reperimento di testi per studio e ricerca a prezzi contenuti; mi pare chiaro, tuttavia, che la complessiva politica universitaria degli ultimi decenni stia sostanzialmente andando in direzione opposta.

  • Secondo recenti dati riportati da Il Sole 24 Ore Roma, l’editoria di Roma e del Lazio, soprattutto la “piccola”, è in una fase di crescita. Direbbe che, finalmente, siamo fuori dalla crisi della filiera editoriale oppure il mercato romano costituisce un’eccezione?

Credo non si possa dare una risposta definitiva a questa domanda (forse potrebbe azzardarne una meglio fondata l’AIE, che di sicuro è in possesso di dati attendibili e più approfonditi). Direi comunque che il panorama romano dei “piccoli”, soprattutto per ciò che attiene alla narrativa, manifesta un’effervescenza e un tasso di originalità delle proposte che non può passare inosservato. Non mi sembra sia abbastanza per dire che siamo fuori dalla crisi, ma è senza dubbio un buon segnale.

  • Bookcrossing, Booktrailer e Reading Groups: riescono veramente ad avvicinare i giovani e nuove fasce di pubblico, ai libri e alla lettura? (vedi, ad esempio, le recenti iniziative de La Cattolica  di Milano)

Le pratiche di socializzazione della lettura “informali” – nate come alternativa, cioè, a generi un po’ consunti come presentazione, conferenza, seminario – sembrano davvero in grado di coinvolgere nuovi (potenziali) lettori; il problema sta semmai nel dopo: nel come trasformare il lettore potenziale in attuale, creando un circolo virtuoso che contribuisca a valorizzare tutta l’offerta editoriale e non solo quella “di consumo”. Inutile nascondersi dietro un dito: per riuscire in questo compito sono necessarie politiche adeguate (scolastiche, anzitutto, ma non solo), ovvero strumenti “formali” che possono al limite raccogliere il testimone di altre iniziative ma funzionano solo se istituzionalizzati e debitamente finanziati. Ancora una volta, da questo punto di vista il nostro Paese non sta facendo abbastanza.

  • E-book versus “traditional book”, supporti diversi per target diversi oppure si contendono la stessa fascia di “passione letteraria” ?

Il problema, come è ovvio e come in molti hanno contribuito a chiarire (penso soprattutto, di recente, a Roncaglia), è cosa debba intendersi per “libro elettronico”. Se infatti l’idea è quella, davvero un po’ primitiva, secondo cui un medesimo contenuto possa essere tout court fruito su supporti diversi allora dall’e-book non abbiamo molto da attenderci: se la “passione letteraria” è sopita o assente nel nostro Paese, la rivoluzione digitale non porterà certo grandi sconvolgimenti.
Del tutto diversa è la questione se consideriamo l’e-book, ma soprattutto le nuove piattaforme di fruizione che si vanno diffondendo (i vari reader e-ink, ma anche gli smartphones e gli iPad), come una grande occasione per ripensare in toto la lettura: oltre la linearità e la chiusura della pagina gutenberghiana esiste infatti la mutimedialità, l’apertura e la consapevole utilizzazione dello spazio bi- (o addirittura tri)dimensionale articolato – tutte risorse sempre presenti nella storia delle notazioni grafiche che la stampa tipografica ha tuttavia contribuito a isterilire, forzandole in rigide dicotomie come testo vs immagine, scrittura vs figura, caratteri vs diagrammi e così via. Quei vincoli tipografici sono ormai superati dalla percezione e fruizione caratteristica del display di un qualsiasi reading device, che offre la possibilità di navigare “dentro” contenuti semioticamente differenziati (testi scritti, mappe, video, immagini, figure, diagrammi…) ma ipertestualmente connessi tra loro, muovendosi agilmente e sinsemicamente (ossia non linearmente) dal dettaglio alla visione generale e viceversa. Questa lettura diventa davvero un’attività altra (non dirò migliore o peggiore: solo diversa) dalla lettura tradizionale, e dunque potenzialmente in grado di attrarre un nuovo pubblico che potrà coniugarla alle pratiche tradizionali (saranno i lettori medi o forti, destinati a diventare lettori-fruitori di contenuti digitali) ma anche costruire a partire da essa una nuova competenza comunicativa (saranno i lettori deboli o i non-lettori che entreranno nell’universo della lettura direttamente dalla porta del digitale). Ecco perché ritengo che i profetici annunci di imminente “morte del libro” (tradizionale), non certo nuovi perché si susseguono periodicamente da circa un quarto di secolo, siano in realtà un’apocalittica sciocchezza: neppure i deterministi più agguerriti e technology driven pensano davvero che tra un decennio sul loro comodino non ci sarà più il caro, vecchio libro da leggere prima di addormentarsi ma un iPad; e finché sul comodino vi saranno libri, beh, allora la passione letteraria passerà ancora e sempre per il supporto “tradizionale”.

  • Corsi di Laurea quale “Informazione e Sistemi Editoriali” sono un “anacronismo” destinato al decesso, a causa del progresso dei tempi, o costituiscono una formazione professionale di cui si ha ancora bisogno?

Potrei tirarmi indietro dinanzi a questa domanda, affermando che sono “parte in causa”, per così dire – dunque interessato a difendere le ragioni di corsi di laurea come quello che ha citato. Scelgo allora di rispondere alla domanda in modo cooperativamente scorretto, ossia con un’altra domanda.
Perché mai il “progresso dei tempi” (immagino le implicature non esplicitate dietro questa espressione siano qualcosa come “in un’epoca che vede trionfare il giornalismo dal basso tipico della rete, libero da vincoli spesso anche deontologici: citizen journalism, grassroot journalism, operazioni à la Wikileaks” e via discorrendo) dovrebbe far venir meno le ragioni di una formazione professionale “globale”? Perché mai la preoccupazione (legittima) dinanzi alla “assenza di regole” dell’informazione prodotta e distribuita in rete dovrebbe condurci ad accettare una logica del “tanto peggio”, rinunciando a progettare nuovi orizzonti deontologici, etici, formativi per i giornalisti digitali di domani?
L’intervista è disponibile anche su Notizie IN-C@MPUS

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